Cagnaccio di San Pietro, pseudonimo di Natalino Bentivoglio Scarpa (Desenzano del Garda, 1897 – Venezia, 1946)
Allievo del pittore Ettore Tito all'Accademia di belle arti di Venezia, partecipò già negli anni Dieci del XX secolo alle mostre di Ca' Pesaro con Gino Rossi, Tullio Garbari e Felice Casorati.
Avvicinatosi al futurismo, se ne allontanò dopo breve tempo, spostando la sua attività su formule figurative tradizionali ("ritorno all'ordine"). Si accostò quindi al Realismo magico. Intorno al 1920 definì il suo stile più caratteristico: una forma compatta e precisa che, oltre che con la Nuova Oggettività, segnava contatti con il Novecento al quale però non aderì mai.
Cominciò a farsi conoscere in varie mostre e nel 1924 espose alla Biennale di Venezia, assumendo il nome d'arte di Cagnaccio, a cui aggiunse di San Pietro in onore del piccolo borgo marinaro di San Pietro in Volta, nell'isola di Pellestrina dove visse la sua infanzia.
Ribelle, anticonformista, Cagnaccio si sentì un outsider e agì come tale, apprezzato e amato più dai colleghi che dalla critica che, in vita, non lo compresero. La Tempesta, datata 1920, segnò "la riconquista della bellezza classica da parte di Cagnaccio" dopo una giovanile infatuazione futurista e il recupero dei capisaldi della tradizione pittorica, un “ritorno all’ordine” che non lo portò tuttavia sul carro del novecentismo sarfattiano per il rifiuto sistematico di Cagnaccio d’aderire a manifesti e movimenti e, infine, per la sua avversione al fascismo: un’avversione viscerale prima ancora che ideologica.
Alla Biennale del 1928, ove sedeva in commissione Margherita Sarfatti, propose provocatoriamente l’opera Dopo l’orgia – respinta – in cui fustigava la deriva morale del regime e qualche anno dopo rifiutò platealmente la tessera del Partito fascista.
Durante la Resistenza diede rifugio a partigiani e ad antifascisti ricercati, tra cui i fratelli Armando e Danilo Gavagnin e Gigetto Tito, figlio di Ettore e suo amico fraterno. Per quanto appartato e refrattario a ogni aggregazione artistica, Cagnaccio fù tuttavia membro riconosciuto di una pattuglia – i Realisti magici – minoritaria ma quotata.
Casorati fù – come scrisse Biagi – il primo dei suoi modelli.
Anche il Virgilio Guidi di In Tram, ammirato nella sua prima Biennale del 1924, suggestionò profondamente Cagnaccio che risulta subito vicino ai "nordici" Leonardo Dudreville, Ubaldo Oppi e Antonio Donghi. Affiorò poi anche una parentela con i pittori veneziani del XV secolo: i “più spigolosi” – Bartolomeo Vivarini, Carlo Crivelli, Jacopo da Valenza, Andrea da Murano – e altrettanto evidenti furono i rimandi (specie nei dipinti di soggetto religioso) a Bellini, Mantegna e Dürer. Con Astolfo de Maria, Bortolo Sacchi e Dino Martens, Cagnaccio rappresentò dunque il corrispettivo lagunare della Nuova Oggettività.
La sua salute fù minata da un male incurabile che lo consumerà progressivamente e lo porterà alla morte a quarantanove anni. Un male di cui Cagnaccio fù ben consapevole e che lo spinse a staccarsi dalla vita sociale e artistica, anche se continuò a dipingere anche negli anni di guerra e ispirandosi spesso alla realtà dell'ospedale: malati, dottori, infermiere, medicine. Dal 1940, mosso da uno slancio mistico, aggiunse alla sua firma la sigla S.D.G (Soli Deo Gloria, "La gloria solo a Dio").