Come registra Pellegrino Antonio Orlandi (1704), Ruschi era figlio di Camillo, un medico ebreo convertitosi al cristianesimo, mentre della madre si ignora il nome. Già ben avviato alla carriera di pittore a Roma, forse al seguito del genitore fece approdo a Venezia, di sicuro prima del 12 gennaio 1629, quando vi stipulò un contratto nuziale con Ludovica Lusi, sua prima moglie (Zava Boccazzi, 1978, p. 333). Oscure restano, tuttavia, le circostanze che lo condussero in laguna: a questo proposito Tommaso Temanza (1738, 1963, p. 83) riferisce di un invito da parte di un ambasciatore veneziano che a Roma gli avrebbe commissionato una serie di dipinti, non meglio specificati.
Altrettanto sfuggente e problematica è la sua formazione: la notizia di un apprendistato nella bottega del Cavalier d’Arpino (p. 82) non ha trovato finora riscontri. Certamente fu a stretto contatto con alcune personalità di spicco del caravaggismo romano degli anni Venti.
A Roma sembra che Ruschi avesse stretto amicizia con Francesco Albani il quale, in una lettera a Girolamo Bonini del 1654, gli inviava i suoi saluti. Inoltre, sulla scorta di un riferimento a Pietro da Cortona sostenuto dalla storiografia moderna (soprattutto da Fiocco, 1933, e da Nicola Ivanoff nel 1738, 1963), Rodolfo Pallucchini gli attribuisce un Ercole e Onfale già in collezione privata romana (passato in asta da Christie’s a New York nel 2001), che sembra effettivamente ispirato agli stilemi dell’artista toscano.
L’ambiente veneziano impresse alla sua tavolozza uno spiccato carattere neoveronesiano, percepibile nei dipinti degli anni Trenta, come nella Venere che piange la morte di Adone, opera già segnalata in collezione Encil alle Bahamas e venduta nel 1990 in un’asta Sotheby’s a Londra, dove «il fulgido cortonismo di luci e colori [...] raggela nel formalismo così appariscente delle stoffe» (Pallucchini, 1981, p. 164).
Fondamentale fu, nel suo caso, l’incontro con Giovan Francesco Loredan, il principe dell’Accademia degli Incogniti, per cui prestò servizio come peintre-graveur, illustrando molte antiporte librarie con notevole perizia esecutiva (Cocchiara, 2010, p. 202).
Al 1641 risale l’esecuzione, su istanza di Francesco Morosini, della pala per la chiesa di S. Pietro in Castello, con la Madonna e i ss. Matteo, Francesco ed Elena (Martinioni, 1663, p. 11), per il cui pagamento sorse una lite con gli eredi del patrizio, che si risolse grazie all’intervento di Sebastiano Mazzoni, suo collega e amico (Temanza, 1738, 1963, p. 83).
Secondo lo storiografo Carlo Ridolfi (1648, a cura di D. von Hadeln, 1924, p. 44), Ruschi fu ingaggiato dalle autorità della Serenissima per «rinnovare» due teleri del Tintoretto in Palazzo Ducale, a riprova della sua capacità di calarsi nello stile del grande maestro veneziano.
Tra il 1639 e il 1651 si dedicò a uno degli incarichi più impegnativi e prestigiosi, la decorazione del soffitto della chiesa di S. Anna a Venezia, che si componeva di quattordici scomparti dipinti su tela, di cui quattro Beatitudini, sei Parabole dal Vangelo di s. Matteo e quattro Doti del Corpo Beato (Martinioni, 1663, p. 24).
Il ciclo di S. Anna, disperso nel 1806, è stato ricostruito, seppur idealmente, da Eduard Safarik (1976, pp. 316-327), che ne ha identificato alcuni pezzi, sparsi attualmente in varie sedi. L’opera non fu esente da critiche, poiché «le figure sono troppo grandi e non soffittano» (Temanza, 1738, 1963, p. 83); ciononostante, con essa il pittore anticipò il revival veronesiano in voga nella seconda metà del secolo (Pallucchini, 1981, p. 166).
In quel periodo Ruschi realizzò alcuni sofisticati dipinti di storia romana e con episodi biblici per il collezionismo privato, riconoscibili per i contorni netti e le cromie ricche dai toni acidi e stridenti. Ne sono un esempio il Ripudio di Agar del Museo civico di Treviso, Rachele nasconde gli idoli (collezione privata) e Cornelia con i suoi figli registrata a Venezia nella collezione Scarpa, la cui vocazione decorativa si risolve in un classicismo accademizzante, non privo di una certa leziosità.
Al quinto decennio si collocano il Non sono io il Cristo (ovvero S. Giovanni Battista che indica Cristo come l’Agnello di Dio) nella basilica di S. Giusto a Trieste, la S. Orsola delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, l’Allegoria della Verità e della Misericordia di Odessa (Museo di arte occidentale e orientale) e la Diana nella pinacoteca Querini Stampalia a Venezia.
Quattro dipinti (di cui si ignora la sorte) pubblicati in un vecchio catalogo d’asta come le allegorie di Fede, Forza, Scienza e Temperanza, per Safarik (1976, p. 333) sarebbero un’altra redazione dei Doni del Corpo Beato. Quanto al coinvolgimento nella decorazione di villa Venier-Contarini a Mira, l’ipotesi di Voss (1933-1934, p. 18) di attribuire a Ruschi gli affreschi con le Storie dell’Iliade, dopo esser stata rigettata, tra gli altri, da Safarik, anche se poi ripresa da Pallucchini (1981), è stata ultimamente abbandonata in favore dell’allievo Antonio Zanchi (Mancini, 2009, pp. 244-248).
Stando ai documenti, il pittore, che abitava nella parrocchia di S. Agostino, passò in seconde nozze con tale Virginia, da cui ebbe due figli: Ludovica, nata nel 1651 e morta l’anno seguente, e Marco, nato nel 1653 (Zava Boccazzi, 1978, p. 333).
Nel 1656 si trasferì a Treviso, dove lasciò molti quadri per lo più di tema religioso, citati nelle guide antiche ma per gran parte perduti (Federici, 1803, p. 102). Ancora ben saldi si mantennero comunque i legami con Venezia, come dimostrano la pala d’altare con S. Bernardo che guarisce un fanciullo per l’omonima chiesa di Murano (oggi ad Aviano, chiesa di S. Zenone) e quella con le Ss. Orsola, Maria Maddalena e angeli, che secondo Giustiniano Martinioni (1663, p. 277) fu consegnata alla chiesa di S. Teresa nel 1660.
Si tratta di pitture caratterizzate da una verticalità accentuata e da monumentali figure inserite in complessi schemi compositivi, come appare anche nella Madonna di Loreto e santi richiesta da Giovan Donato Correggio per una sua cappella in S. Clemente a Venezia (oggi nel Museo diocesano).
Secondo quanto registra un inventario di quadri dello stesso mecenate, si tratterebbe dell’ultimo lavoro licenziato dall’artista prima della morte a Treviso nel luglio 1661 (Borean, 2000, p. 182). Si tratta di una notizia che trova conferma in un sonetto commemorativo pubblicato nello stesso anno da Sebastiano Mazzoni ne Il Tempo perduto. Scherzi sconcertati (Venezia, appresso Francesco Valvasense, 1661, p. 57).
La pittura di Ruschi, fuori dal grande alveo della tradizione veneziana ma sensibile alle inflessioni locali, suscitò reazioni contrastanti da parte dei contemporanei. Definito «industre e valoroso pittore» da Ridolfi (1648, 1924, p. 44), nella Carta del navegar pitoresco, pur senza nominarlo in termini espliciti, Marco Boschini riservò invece una critica sferzante al naturalismo plastico che informava il suo stile (1660, a cura di A. Pallucchini, 1966, pp. 376 s.).
Il Temanza (1738, 1963, p. 84), che sull’artista romano si dimostra molto informato, ricorda i suoi allievi: oltre ad Antonio Zanchi, cita Pietro Negri, Francesco Rosa e Federico Cervelli.