GIUSEPPE NUVOLONE
(Milano, 1619 - 1703)
Figlio di Panfilo e di sua moglie Isabella, nacque nel 1619 a Milano. Come il fratello Carlo Francesco fu spesso ricordato nei documenti in vita e nelle fonti con il soprannome di Panfilo.
Non si possiedono informazioni precise riguardo ai suoi esordi e alla sua formazione, che dovette comunque avvenire presso il fratello maggiore Carlo Francesco. Lo dimostrano le più antiche opere riferibili a lui con certezza, vale a dire i Lavori domestici della sacra famiglia in S. Giorgio a Bregnano (1646) e la pala con S. Francesco in estasi in S. Giorgio a Cornate d’Adda (1650), nelle quali dimostra un’adesione incondizionata alle scelte di stile di Carlo Francesco tanto che, specie in questi anni, sono spesso problematiche la distinzione tra le opere dei due pittori e la definizione dei rispettivi cataloghi. La contiguità con il fratello trova conferma nelle numerose imprese eseguite in collaborazione, a partire almeno dal ciclo di tele e affreschi con Scene bibliche della cappella del Salvatore del santuario della Beata Vergine di Vimercate (1648-1652) e dal celebre Autoritratto della famiglia Nuvolone della Pinacoteca di Brera, realizzato intorno alla metà del secolo, nel quale spettano a Giuseppe le tre figure ai lati della scena, tra cui l’autoritratto, in atto di suonare una mandola.
Sempre a fianco di Carlo Francesco, Giuseppe risulta impegnato, negli anni di poco successivi, nei cicli di affreschi della cappella X (Vittoria di s. Francesco sulle tentazioni) del Sacro Monte di Orta (1654), della cappella XVII (Agonia di s. Francesco) del medesimo complesso monumentale (circa 1661) e di palazzo Ferrero Fieschi a Masserano (Biella), intorno al 1660. A causa anche della concomitante uscita di scena di Carlo Francesco, in questi ultimi due cantieri l’intervento di Giuseppe fu peraltro del tutto preponderante, tanto da riguardare in modo pressoché integrale la realizzazione delle pitture murali, per le quali poté comunque in parte avvalersi di disegni e progetti di Carlo Francesco.
La messa a fuoco del ruolo giocato da Giuseppe nell’ambito di questa lunga consuetudine di collaborazione trova un indispensabile termine di riferimento nei dipinti realizzati negli stessi anni dal pittore in modo indipendente, come quelli di Bregnano e di Cornate d’Adda prima ricordati, e soprattutto quelli scalabili lungo la seconda metà degli anni Cinquanta, come la decorazione della cappella di S. Antonio Abate nella collegiata di S. Lorenzo a Chiavenna, la cui pala d’altare reca la data 1657, la pala della parrocchia di Groppello d’Adda (1657), la Maddalena del Museo civico di Novara (1655-1658) e il Caino e Abele della basilica di S. Maria Maggiore a Bergamo, del 1659.
Per quanto ancora contraddistinte da una profonda sintonia con i modelli e la tecnica pittorica di Carlo Francesco, come testimonia la Maddalena di Novara, che riprende la pala di analogo soggetto eseguita dal fratello per l’omonima chiesa di Alessandria nel 1655, queste opere consentono tuttavia di cogliere i primi segnali della distinta personalità di Giuseppe. Ne dà conto la propensione a caratterizzare le figure in modo più vigoroso e risentito rispetto a Carlo Francesco e a introdurre nel delicato repertorio tipologico di quest’ultimo accentuazioni espressive più esplicite, che contribuiscono a incrinare l’armoniosa regolarità dei volti. Tali prerogative si colgono bene anche nelle prove di Giuseppe di poco più tarde, come la grande Madonna del Latte e devoti, già presso l’antiquario Luzzetti a Firenze (1661), la bella tela quasi gemella con Ruth e Boaz, di collezione privata (1662): due dipinti utili anche a mettere in risalto l’efficacia narrativa della pittura di Giuseppe e la sua abilità nel padroneggiare le rappresentazioni di grande respiro.
È anche in virtù di queste qualità che l’artista riscosse, a partire da quegli anni, un crescente successo, certo favorito dalla scomparsa di Carlo Francesco nel 1661, che lo trasformò in principale divulgatore della fortunata maniera ‘nuvoloniana’. Significativa in tal senso è, innanzitutto, la committenza nel 1663, da parte della corte sabauda, di due tele con rievocazioni storiche a carattere celebrativo di Bona di Savoia e di Ludovica di Savoia, destinate a decorare un ambiente di palazzo reale a Torino. La predisposizione a cimentarsi in grandi cicli narrativi su tela trova poi una nobile testimonianza, attorno al 1665, nell’intonazione fortemente evocativa e quasi romanzesca delle tre Storie di s. Agostino realizzate per la chiesa eponima di Novara e oggi nel locale Collegio nazionale.
Nei medesimi anni particolare rilievo ebbe la preferenza accordata a Nuvolone da Bartolomeo Arese, divenuto nel 1660 presidente del Senato di Milano, il quale lo convocò a più riprese all’interno delle importanti imprese decorative di tema sacro e profano da lui promosse. Vanno lette in quest’ottica la partecipazione alla perduta serie di tele commissionate per le esequie di re Filippo IV nel duomo di Milano (1665) e l’esecuzione dell’Allegoria asburgica oggi in palazzo Sormani a Milano, che si è proposto di porre in relazione con le cerimonie sollecitate dal passaggio nel capoluogo lombardo, nel 1666, di Margherita d’Austria, futura moglie dell’imperatore Leopoldo I. Sempre su incarico dell’influente presidente del Senato, Nuvolone prese parte inoltre al ciclo di tele allestito tra il 1665 e il 1674 per la sala dei senatori del palazzo ducale di Milano, per il quale realizzò la notevole Flagellazione oggi alla Pinacoteca di Brera e un’altra opera perduta. In prossimità del 1670 si collocano infine gli affreschi e le tele (queste ultime approdate presso la collezione Borromeo all’Isola madre) che l’artista realizzò per il palazzo dell’Arese, tuttora esistente a Cesano Maderno.
In queste imprese Nuvolone si trovò molto spesso a lavorare al fianco dei medesimi artisti: Giovanni Stefano e Giuseppe Montalto, Antonio Busca, Ercole Procaccini il Giovane, Federico Bianchi, accanto ai quali contribuì di fatto a tracciare, ferme restando le peculiarità dei singoli orientamenti di stile, il percorso del tardo barocco milanese. Una vicenda segnata peraltro, nel suo complesso, da una sostanziale continuità con la traiettoria intrapresa dalla pittura del capoluogo lombardo intorno alla metà del secolo, come testimonia nel modo più limpido proprio la personalità di Nuvolone, mai disposta, anche negli anni della piena maturità, ad abbandonare la strada delineata a suo tempo da Carlo Francesco.
Al 1667 data il soggiorno a Roma che Nuvolone compì allorché, assieme all’architetto Girolamo Quadrio e allo scultore Giuseppe Vismara, ottenne per qualche tempo la protezione del cardinale Giberto III Borromeo, opportunamente sollecitato in tal senso da una lettera di raccomandazione di Bartolomeo Arese.
Nessuna concreta eco di quell’esperienza si avverte in realtà nel seguito della densa produzione di Nuvolone, che lo vide alternare agli impegni milanesi (Madonna del Rosario e Ester e Assuero, Milano, S. Maria della Passione, provenienti dalla locale chiesa dei Ss. Cosma e Damiano, 1671; Natività e imposizione del nome del Battista, Castelmarte, parrocchiale, proveniente dall’oratorio della chiesa milanese di S. Giovanni alla Case rotte, circa 1673), importanti e ripetute commissioni soprattutto nelle città di Cremona e Brescia.
I lavori per Cremona, città natale del padre, presero avvio nel 1668 con l’esecuzione della pala d’altare e degli affreschi del coro (entrambi perduti) della distrutta chiesa di S. Domenico, per la quale Nuvolone fu impegnato a più riprese negli anni successivi. Nel medesimo edificio venne infatti convocato dapprima per ornare la controfacciata della chiesa, per la quale concepì l’immensa tela raffigurante S. Domenico che resuscita Napoleone Orsini, affiancata dalle immagini del Beato Rolando da Cremona e del Beato Moneta da Cremona, tutte del 1671 (oggi Cremona, Pinacoteca Ala Ponzone), quindi per realizzare la pala d’altare della cappella di S. Rosa da Lima (1671, oggi Cremona, S. Sebastiano), quella della cappella dedicata a papa Pio V (1672, perduta) e infine la decorazione murale ancora della cappella di S. Rosa da Lima (1679-82), alla quale collaborò il figlio Carlo. Affiancarono queste opere altre imprese cremonesi meno rilevanti, tra le quali meritano di essere ricordati gli affreschi con Angeli che decorano i pilastri sottostanti la cupola della chiesa di S. Sigismondo, fino a ora mai riconosciuti al pittore, che probabilmente intervenne in quel contesto per risarcire i danni subiti dagli affreschi cinquecenteschi di Giulio Campi nelle medesime porzioni murali.
Per quanto riguarda gli impegni bresciani, presero avvio, probabilmente, con le tele realizzate poco prima del 1675 per la cappella della Congrega della Carità apostolica, cui fecero seguito la bella Assunzione della Vergine di Collio in Valtrompia (1677) e soprattutto un’altra tela di poderoso formato (dopo quella per la controfacciata di S. Domenico), da riconoscere nella pala con I Santi che implorano la cessazione della peste a Brescia, realizzata per il duomo nuovo della città tra 1679 e il 1680, a cinquant’anni dal contagio del 1630. Completano quindi il catalogo delle commissioni bresciane la pala d’altare con S. Vigilio della chiesa di Lodrino in Val Trompia (di poco successiva al 1684), le opere realizzate in diversi momenti per la chiesa di S. Giovanni Evangelista a Brescia (tra le quali le tele con l’Adorazione dei Magi e le Marie al sepolcro, riferibili al 1695), e quindi la pala con S. Antonio da Padova destinata ancora al duomo, a cui Giuseppe lavorò ormai nei primi anni del Settecento.
La rassegna degli incarichi cremonesi e bresciani consente dunque di seguire il tratto più avanzato della produzione di Giuseppe, che anche nei dipinti appena ricordati non sembra mettere in mostra sostanziali scarti di stile rispetto alla iniziali premesse del suo linguaggio, fatta eccezione per la progressiva adozione di un registro luministico più ribassato e di una stesura pittorica più riassuntiva. Risultati in tutto analoghi offre la ricognizioni dei coevi lavori eseguiti a Milano e realizzati per gli altri centri della Lombardia e dell’Emilia settentrionale, contraddistinti da una fare ripetitivo, da solido mestierante, come nella pala con la Madonna in gloria adorata da s. Domenico e s. Antonio da Padova della Pinacoteca Ambrosiana (1675), nella Pentecoste della chiesa di S. Francesco a Piacenza (1681) e nella pala con S. Paola Romana della Pinacoteca di Brera (1684).
Costantemente iscritto a partire dal 1695 alla congregazione milanese dell’Accademia di S. Luca, morì a Milano il 20 dicembre 1703.
Oltre al già ricordato Carlo, la cui unica opera supersite sono gli affreschi, firmati, della chiesa di S. Martino a Savognin, in Engadina, Giuseppe ebbe anche i figli Gerolamo, ugualmente pittore, e Antonio, ingegnere e architetto.