La formazione di Sironi avviene a Roma, dove la famiglia si trasferisce un anno dopo la sua nascita. Qui, dopo la prematura morte del padre nel 1898, compie gli studi tecnici. Intanto legge Schopenhauer, Nietzsche, Heine, Leopardi, i romanzieri francesi, studia il pianoforte, suonando soprattutto Wagner, e fin da piccolo si dedica al disegno.
A partire dal 1913, ispirato dall'opera di Boccioni, si avvicina al futurismo, che interpreta però alla luce della sua incessante ricerca volumetrica. Nel 1914 partecipa alla “Libera Esposizione Internazionale Futurista” da Sprovieri a Roma e alla declamazione di Piedigrotta di Cangiullo. Nel 1915 si trasferisce per breve tempo a Milano, dove collabora alla rivista “Gli Avvenimenti” ed entra nel nucleo dirigente del futurismo. Allo scoppio della guerra si arruola nel Battaglione Volontari Ciclisti, di cui fanno parte anche Boccioni, Marinetti, Sant’Elia, Funi, Russolo, e in dicembre firma il manifesto futurista L'orgoglio italiano.
Nel 1916 escono i primi interventi critici sul suo lavoro: il primo è di Boccioni, che definisce i suoi disegni una “manifestazione artistica illustrativa eccezionalmente originale e potente”; il secondo è di Margherita Sarfatti, che sottolinea in lui “un'arte di sintesi e di semplificazione estrema”[2]. Riprende intanto a combattere nel Genio Civile, dopo aver seguito i corsi per Ufficiali Fotoelettrici a Torino e a Padova. È in prima linea fino al 1918, quando viene spostato all'Ufficio Propaganda, dove collabora con Bontempelli alla rivistina di trincea “Il Montello”.
Nel marzo 1919 rientra a Roma dopo il congedo. Nello stesso periodo partecipa alla Grande Esposizione Nazionale Futurista, esponendo quindici opere prevalentemente sul tema della guerra. Ormai, però, suggestioni metafisiche mutuate da Carrà e De Chirico pervadono la sua pittura. In luglio tiene la prima personale a Roma, da Bragaglia.
Sempre a luglio Sironi sposa Matilde Fabbrini, da cui avrà due figlie: Aglae nel 1921 e Rossana nel 1929. In settembre, però, parte per Milano senza la moglie, che le ristrettezze economiche non gli permettono di portare con sé. Nascono in questo periodo, anche dalle suggestioni della realtà cittadina, i suoi paesaggi urbani. Si avvicina intanto al fascismo e Marinetti lo ricorda già nell'ottobre 1919 alle riunioni del Fascio milanese[3].
Nel gennaio 1920, con Funi, Dudreville e Russolo, Sironi firma il Manifesto futurista. Contro tutti i ritorni in pittura, che nonostante il titolo contiene già molte istanze del futuro Novecento Italiano. In marzo partecipa a una collettiva nella neonata Galleria Arte, dove espone per la prima volta i paesaggi urbani. Il ciclo dei paesaggi urbani rappresenta uno dei vertici dell'arte sironiana, ma anche uno dei temi meno compresi dalla critica recente. È utile, a questo proposito, riprendere la lettura compiuta dalla Sarfatti, che vi individua la tragicità e quella che chiama, con espressione nietzscheana e dannunziana, la “glorificazione”[4]. Sironi, cioè, infonde negli elementi tragici forza e grandiosità. Accanto alla pittura, peraltro, l'artista continua a dedicarsi al disegno e all'illustrazione: dal 1922 al 25 luglio 1945 sarà il principale illustratore del Il Popolo d'Italia; sul quotidiano di Benito Mussolini dal 1922 al 1926 farà delle caricature molto pesanti degli antifascisti dell'epoca.[5] Disegnerà copertina e contenuti della Rivista Illustrata de Il Popolo d'Italia rifacendosi all'immaginario collettivo dell'interventismo, della guerra e della vittoria fino alle tappe successive del fascismo.[5] Dal 1922 per quasi ventanni illustrerà mensilmente la copertina della rivista Gerarchia, sempre di Mussolini.[5] Per tutto il periodo del regime Sironi sarà il principale promotore, artefice e organizzatore dello stile fascista, anche nelle mostre.[5]
Nel dicembre 1922 fonda, con Bucci, Dudreville, Funi, Malerba, Marussig e Oppi, il Novecento Italiano, che si presenta per la prima volta a Milano, alla Galleria Pesaro nel marzo 1923. Animato dalla Sarfatti, il movimento aspira a una “moderna classicità”, cioè a una forma classica, priva di pittoricismi ottocenteschi, filtrata attraverso una sintesi purista[6]. Il pensiero di Platone, e in particolare il Febo, con il suo richiamo alle forme geometriche “belle in se”, è spesso ricordato dalla scrittrice nelle sue pagine critiche sul gruppo.
Nel 1924 Sironi partecipa alla Biennale di Venezia col gruppo novecentista (ribattezzatosi “Sei pittori del Novecento” per l'assenza di Oppi). Qui espone quattro dipinti tutti sul tema della figura, tra cui L'architetto e L'allieva che restano fra i suoi massimi capolavori, ma la sua presenza passa quasi inosservata. .
Del “Novecento” Sironi è la personalità più rappresentativa. Fin dal 1925 entra a far parte del Comitato Direttivo ed espone alle mostre nazionali e internazionali del gruppo (nel 1926 a Milano alla I Mostra del Novecento Italiano e a Parigi alla Galerie Carminati; nel 1927 a Ginevra, Zurigo, Amsterdam, L'Aja; nel 1929 a Milano alla II mostra del Novecento Italiano e alle rassegne di Nizza, Ginevra, Berlino, Parigi; nel 1930 a Basilea, Berna, Buenos Aires; nel 1931 a Stoccolma, Oslo, Helsinki). Intanto dal 1927, e fino al 1931, scrive come critico d'arte sul “Popolo d'Italia”.
Intorno al 1930 conosce Mimì Costa, alla quale, tra alterne vicissitudini, rimarrà legato il resto della vita. Sempre nel 1930 esce la sua prima monografia, firmata da Giovanni Scheiwiller.
Nel 1931 è invitato con una sala personale alla I Quadriennale di Roma ma, nonostante l'appoggio di Ojetti, non ottiene premi. La sua pittura, del resto, intorno al 1929-30 venti abbandona il segno nitido della prima stagione novecentista e attraversa un periodo espressionista, caratterizzato da una approssimazione della figura e una violenza della pennellata che disorienta la maggior parte dei critici. Sempre nel 1931 Sironi è incaricato di eseguire la vetrata La Carta del Lavoro per il Ministero delle Corporazioni a Roma, che termina nel 1932; e due grandi tele per il Palazzo delle Poste a Bergamo: Il Lavoro nei campi o L'Agricoltura e Il Lavoro in città o L'Architettura, che completa nel 1934.
Lungo il decennio si dedica sempre più alla grande decorazione, trascurando il quadro da cavalletto, che considera ormai una forma insufficiente[7]. La pittura murale, per lui, non è solo una tecnica, ma un modo radicalmente diverso (antico e classico, ma anche nuovo e fascista, perché, come afferma lui stesso, “sociale per eccellenza[8]” di pensare l'arte. La grande decorazione infatti è un'arte indipendente dal possesso individuale e dal collezionismo privato, perché si incontra per le strade, nelle piazze, nei luoghi di lavoro. È un'arte che ridimensiona l'importanza del mercato e delle mostre (un muro non si può vendere né esporre, se non in forma effimera) e stimola la committenza dello Stato. È un'arte infine che sollecita gli artisti a misurarsi con temi alti e potenti, e con una nuova concezione dello spazio, favorendo il superamento dell'intimismo. Tuttavia per Sironi la pittura murale non deve cadere nel contenutismo né tantomeno nella propaganda. In questo senso la sua pittura murale, pur avendo dato espressione all'ideologia fascista (non alle leggi razziali, che l'artista non ha mai condiviso[9]), ne è per molti aspetti indipendente, proprio per il suo valore stilistico e formale.
L'artista teorizza il ritorno alla grande decorazione soprattutto in due testi programmatici: Pittura murale (“Il Popolo d'Italia”, 1º gennaio 1932) e il Manifesto della Pittura Murale, firmato anche da Campigli, Carrà e Funi (“Colonna”, dicembre 1933). Tutto il decennio lo vede affannato in una serie di lavori monumentali, in cui, superate le sprezzature espressioniste, adotta una composizione multicentrica, spesso a riquadri, governata da una spazialità e una prospettiva prerinascimentali. Nel 1932 scolpisce due rilievi per la Casa dei Sindacati Fascisti a Milano. Nel 1933 alla V Triennale coordina gli interventi di pittura murale, chiamando i migliori artisti italiani a realizzare decorazioni monumentali. Lui stesso esegue il grande Lavoro, oltre a opere plastiche e architettoniche. (È in questa occasione, tra l'altro, che si rinfocolano le polemiche anti-novecentiste, iniziate intorno al 1931 e animate soprattutto da Farinacci e dal suo giornale “Il Regime Fascista”. Sironi, fatto oggetto di violenti attacchi, difende con articoli appassionati le ragioni del “Novecento”). Nel 1934 partecipa con Terragni al concorso per il Palazzo del Littorio di Roma, progettando rilievi e pitture murali. Nella seconda metà del decennio esegue l'affresco L'Italia tra le Arti e le Scienze nell'Aula Magna dell'Università di Roma (1935); il mosaico L'Italia corporativa (1936-1937, oggi al Palazzo dei Giornali, Milano); gli affreschi L'Italia, Venezia e gli Studi per Ca' Foscari a Venezia (1936-1937) e Rex imperator e Dux per la Casa Madre dei Mutilati a Roma (1936-1938); il mosaico La Giustizia tra la Legge, la Forza e la Verità per il Palazzo di Giustizia di Milano (1936-1939); due grandi bassorilievi per l'Esposizione Internazionale di Parigi (1937); la vetrata L'Annunciazione per la chiesa dell'Ospedale di Niguarda a Milano (1938-1939). Nel 1939 progetta interventi scultorei per il concorso per il Danteum, nel gruppo di lavoro diretto da Terragni. Fra il 1939 e il 1942 collabora con Muzio al Palazzo de “il Popolo d'Italia”, realizzando le decorazioni della facciata e di alcuni interni, e intervenendo anche nel progetto architettonico. Accanto alle grandi imprese decorative non bisogna dimenticare i complessi allestimenti architettonici, tra cui nel 1932 quello di varie sale della Mostra della Rivoluzione Fascista; nel 1933 di molte parti della Triennale di Milano; nel 1934 della Sala dell'Aviazione nella Grande Guerra alla Mostra dell'Aeronautica italiana; nel 1935 del Salone d'Onore alla Mostra Nazionale dello Sport; nel 1936 del Padiglione Fiat alla Fiera Campionaria di Milano; nel 1937 della sala dell'Italia d'Oltremare all'Expo Internazionale di Parigi; nel 1939 di una parte della Mostra Nazionale del Dopolavoro a Roma[10]. È un impegno senza tregua, le cui scadenze assillanti compromettono perfino la sua salute. Lungo il decennio riduce radicalmente, invece, la partecipazione a mostre, anche se tiene due importanti personali alla Galleria Milano (1931 e 1934).
Nel settembre 1943 Sironi aderisce alla Repubblica di Salò, seguendo con crescente angoscia l'evolversi degli eventi.
Il 25 aprile rischia anche di essere fucilato: esce in strada fra gli spari, a Milano, e viene fermato a un posto di blocco da una brigata partigiana. Sarebbe stato ucciso se Gianni Rodari, che faceva parte della brigata e l'aveva riconosciuto, non gli avesse firmato un lasciapassare[11]. Alla disperata amarezza per il crollo delle sue illusioni civili e politiche si aggiunge lo strazio per il suicidio della figlia Rossana, che si toglie la vita a diciotto anni nel 1948. Non smette comunque di lavorare. Nella sua pittura, però, alla potente energia costruttiva si sostituisce spesso uno sfaldarsi delle forme e un allentarsi della sintassi compositiva. E non è un caso che uno dei suoi ultimi cicli pittorici sia dedicato all’Apocalisse.
Nel 1949-1950, Sironi aderisce al progetto della importante collezione Verzocchi, sul tema del lavoro, inviando, oltre ad un autoritratto, l'opera intitolata appunto Il lavoro. La collezione Verzocchi è attualmente conservata presso la Pinacoteca Civica di Forlì.
Poco considerato da critici come Longhi, Venturi, Argan, in questi anni rifiuta polemicamente di partecipare alle Biennali di Venezia, ma continua a esporre in Italia (Triennale di Milano, 1951; Quadriennale di Roma, 1955) e all'estero (mostra itinerante negli Stati Uniti, con Marino Marini, nel 1953). Esegue inoltre scenografie e costumi per il teatro (Tristano e Isotta, 1947, per la Scala di Milano; I Lombardi alla Prima Crociata, 1948, e Don Carlos, 1950, per il Teatro Comunale di Firenze; Medea e Il Ciclope, 1949, per il Teatro Romano di Ostia). Nel 1955 esce la monografia, tuttora fondamentale, Mario Sironi pittore di Agnoldomenico Pica. Nel 1956 è eletto Accademico di San Luca.
La sua salute intanto si deteriora, anche per il sopraggiungere di un'artrite progressiva. Nell'agosto 1961 è ricoverato per una broncopolmonite in una clinica di Milano. Muore pochi giorni dopo, il 13 agosto.
Nel 1985 è stato donato da Aglae e Andrea Sironi un gruppo di opere composto da 509 disegni, 29 manoscritti, 8 cartoni, 42 tempere e disegni al Centro studi e Archivio della Comunicazione di Parma. Ad oggi, questo fondo è pubblico e interamente consultabile.
Numerose le grandi retrospettive che hanno ripercorso la storia della complessa attività dell'artista (Palazzo Reale, Milano, 1973 e 1985; Städtische Kunsthalle, Düsseldorf, 1988; Galleria Nazionale d'Arte Moderna, Roma, 1993-1994; Vittoriano, Roma, 2015).